Ars Vitae


Vai ai contenuti

Menu principale:


Il gusto è un prodotto sociale

In Cucina > Letteratura





Tratto dal libro "Il cibo come cultura" Editori Laterza di Massimo Montanari, insegnante di Storia medievale e Storia dell'alimentazione all'Università di Bologna

Se tutti i comportamenti alimentari passano attraverso un momento di scelta, i meccanismi attraverso i quali la scelta si compie sono tuttavia diversi, e se vogliamo parlare dei "modelli del gusto", di come essi si formano e si modificano nel tempo, una domanda che non possiamo non porre è: il gusto di chi? E' ben chiaro infatti che la fame (di molti) e l'abbondanza (di pochi) difficilmente portano alle stesse scelte, e che, se tutti hanno diritto a trasformare in piacere la necessità del sostentamento quotidiano, le modalità con cui ciò si verifica sono piuttosto diverse fra loro.
L'antropologo Marvin Harris, assertore di un materialismo rigidamente utilitario, ritiene che le scelte alimentari dei popoli e degli individui siano sempre determinate da un calcolo (più o meno consapevole) dei vantaggi e degli svantaggi conseguenti: alla fin dei conti, i vari regimi alimentari, non esclusi quelli che fanno posto all' antropofagia, sarebbero più pratici ed economici storicamente possibili in quelle determinate condizioni, poichè in ogni società i cibi preferiti sarebbero sempre quelli
"che fanno pendere la bilancia dei benefici pratici, rispetto a quella dei costi": di qui le abitudini alimentari e la valutazione di determinati cibi come "buoni" e di altri come "cattivi".
Il
"buono da mangiare", ossia ciò che conviene mangiare, storicamente diventa, secondo Harris, il "buono da pensare", il valore culturale positivo. Ma tutto questo funziona ento certi limiti, solo se parliamo dei ceti subalterni e della loro fame mai sufficientemente appagata. E' chiaro che le loro abitudini, e dunque in ultima analisi i loro gusti, sono determinati dalla facilità del reperimento del prodotto, dalla sua idoneità ad essere conservato ed elaborato, dalla sua capacità di riempire, allontanando l'angoscioso morso della fame. Si spiega così il gusto popolare per i farinacei, cereali, legumi, castagne, cibi "da riempimento". Si spiega il gusto, più recente, per la pasta o per le patate.
Prima obiezione: non è sempre detto che le abitudini alimentari corrispondano al gusto degli individui. Su questo ha molto insistito Jean-Louis Flandrin: un conto è mangiare una cosa sporadicamente e anche d'abitudine; un conto è apprezzarla. I contadini europei, che per secoli hanno consumato pane scuro confezionato con cereali inferiori quali la segale, la spelta o l'orzo, hanno certo sviluppato una congruità psicologica e fisiologica a quel genere di cibo; ciò non toglie che abbiano sempre desiderato mangiare pane bianco di frumento come i signori e come i cittadini. Solo l'ansia e la noia dei cittadini ricchi a un certo punto hanno trasformato quel cibo di povertà (il pane scuro) in cibo d'èlite, promuovendolo alle erboristerie e ai negozi di specialità alimentari, nuova immagine di un passato mai esistito, di una ruralità incorrotta e felice che i contadini non hanno mai conosciuto. E qui sarebbe difficile distinguere quanto sincero nelle papille gustative sia l'apprezzamento dei consumatori ricchi per questi cibi rustici; il sospetto è che li si mangi perchè l'idea che ci si è fatta di loro li fa sentire buoni. La direzione del percorso individuato da Harris dall'abitudine al gusto, dal mangiare al pensare, potrebbe anche essere inverita.
Difatti, se invertiamo l'ottica sociale di riferimento e passiamo dal contesto della povertà a quello della ricchezza, il meccanismo di formazione del gusto sembra anch'esso invertirsi. Oggetto di desiderio non è più il cibo abbondante, ma quello raro; non quello che riempie e fa passare la fame, ma quello che stuzzica e invita a mangiare di più.
Certi edonisti del Cinquecento, per non citare che un esempio curioso, usavano mangiare insalata a metà del pasto, al fine di riaccendere l'appetito perduto: poichè essa
"aguzza et incita appetito", costoro, "troppo avidi al magnare", contravvenivano allle normali regole dietetiche, che suggerivano di servire l'insalata all'inizio. La nota è del botanico marchigiano Costanzo Felici, che non manca di deplorare il comportamento di questi ghiottoni. Quanto al fascino del cibo raro, forse l'esempio più eclatante è quello delle spezie, che nel medioevo ebbero un successo straordinario sulla tavola dei ceti dominanti, mentre furono progressivamente abbandonate nel corso del Seicento, quando la maggiore offerta sul mercato e il conseguente calo dei prezzi le resero accessibili a una fascia più ampia di consumatori, a quel punto le spezie non furono più indicative della distinzione sociale, perciò l'èlites cercarono nuovi motivi di distinzione: nel burro, nella pasticceria, o addirittura nelle verdure fresche dell'orto. Un recupero di modelli alimentari contadini, culturalmente analogo nella sua ambiguità, agli odierni "recuperi" delle diete povere.
L'anti-economicità sembrerebbe dunque un importante motore nel processo di formazione del gusto delle classi alte, per il semplice motivo che, come scriveva Isidoro di Siviglia (VII Sec.) a proposito del fagiolo: "...tutto ciò che abbonda è vile". Un altro buon esempio è quello della frutta fresca, un prodotto particolarmente delicato e deperibile che per lungo tempo si è collegato a immagini di lusso e di ricchezza. In particolare nei secoli del tardo medioevo e della prima età moderna, la frutta fu di moda sulle tavole ricche delineandosi come vero tratto caratteristico della
"golosità signorile"; e si badi che in questo caso a differenza che in altri, la scelta si contrapponeva alle indicazioni dei medici: la scienza dietetica del tempo infatti, era assai diffidente nei confronti della frutta che si riteneva generatrice di umori freddi e umidi dannosi ai processi digestivi. Eppure la moda dilagò: l'immaginario, come spesso accade ebbe la meglio sulla ragione.


Menu di sezione:


Torna ai contenuti | Torna al menu